Angelo De Falco racconta i 50 anni
del Gruppo Operaio ‘E Zézi.
Conversazione con Gianni Valentino
“La volontà di fondare un gruppo di canto popolare nasce dalla frustrazione per le orrende trasformazioni delle antiche melodie delle canzoni napoletane, e della sceneggiata, e dall’aver visto insieme a Roberto De Simone la “Zeza” di Bellizzi Irpino. Era un giorno di febbraio del 1974”.
Ceralacca: Angelo De Falco. Cinquant’anni fa. Cinquant’anni ora. Le storie, le facce, le voci, le rivolte, le mani, le rughe, i lamenti, i concerti, i cortei. I lutti, le carovane. Il pane, il salame, i fuochi, i tormenti, il vino. ‘E Zézi hanno 50 anni e sono pronti a nuovi spettacoli, nuovi album, nuovi racconti.
Dall’Iraq alla cerniera vesuviana, ci vuole un baleno. Perché i rituali da villaggio rurale del Medio Oriente diventano miracoli di resistenza magica a Pomigliano d’Arco. “Dalla Mesopotamia, da quelle parti là insomma, c’è qualcosa che ci rende fratelli attraverso un semplice copricapo e i festoni colorati che penzolano attorno”, sostiene Angelo. “Quelle cerimonie antiche sono pure le nostre processioni.
E in qualche modo lo avevo intuito quell’inverno in Irpinia. Nel 1974 vivevamo in questa cittadina dell’hinterland napoletano, dove si insediava la fabbrica di automobili Alfasud. All’inizio disturbava, poi illudeva, infine schizzava gran parte del popolo lavoratore delle campagne. Quel fuoco bruciava le menti, le braccia, i cervelli e gli occhi della comunità di residenti. In questa zona c’erano contadini, artigiani, che cambiavano ruolo per essere considerati cieca manovalanza operaia dell’industria. Dopo avere visto le fotografie che ci mostrò Giovanni Sgammato in cui veniva ritratto il teatro di strada della cosiddetta “Zeza” noi scegliemmo il nome definitivo: Gruppo Operaio ‘E Zézi. Perché il teatro nelle piazze, il rituale popolare carnevalesco, era durato fino a metà anni ’50. A un tratto, si era interrotto. Le squadre dei rioni si erano frantumate a causa dell’emigrazione, i quartieri affrontavano le mutazioni familiari e noi capimmo che quella commedia a cielo aperto doveva e poteva risorgere.
Fare festa insieme vuol dire reagire insieme. È la lingua del popolo. Scrivemmo, cantammo, recitammo e quella violenta metamorfosi la intitolammo “Tammurriata dell’Alfasud”. Il nostro primo album, pubblicato nel 1976, con una specie di sottotitolo che recita a chiare lettere: “Il nostro lavoro vive per merito e per bocca di migliaia di lavoratori che sono la vera cultura del nostro paese”. Vuoi sapere un ricordo buffo? Roberto De Simone ci aveva suggerito di suonare le canzoni con gli utensili di fabbrica: cacciaviti, chiavi inglesi, pinze, rinunciando al furore delle tammorre, al brio del triccabballacche, del putipù, dello scetavajasse, all’energia delle caccavelle (pentole), dei ruoti (teglie), della votapesce (mestolo forato). Chiaramente non eravamo d’accordo e facemmo a modo nostro. Perché non sarebbe stato il linguaggio popolare che pretende udienza e afferma la sua parola. I proletari diventano schiavi del ritmo della catena di montaggio, matricole, e noi ne raccontiamo il disagio e lo sfruttamento”.
Parlare con Angelo e guardarlo negli occhi significa leggere milioni di libri in un solo istante. Il suo cervello è un flipper di nomi e città, avventure e palchi. Se il “mio ginocchio è moscio come i partiti della sinistra italiana”, rivendica satirico, “il cuore è una grancassa blu e gialla che irradia idee e sensibilità creativa. La nostra prima uscita avvenne nella Sagrestia della chiesa del Carmine di piazza Municipio a Pomigliano. Ero il capobanda, sì. Era il 13 novembre 1974. Con Marcello Colasurdo (che una volta lavorava come barista dirimpetto alla circumvesuviana) e Matteo D’Onofrio eseguimmo la rappresentazione della “Zeza” tra i cantatori di Somma Vesuviana. Mi ricordo che c’era pure Tarzan, questo il suo contronome, in una di quelle tante paranze musicali. Con De Simone c’era l’idea di portare questa Zeza al Festival dei due mondi di Spoleto, come avvenne più tardi per “La gatta Cenerentola” di De Simone. Da quelle conversazioni, il fotografo Mimmo Jodice ebbe quindi il desiderio di realizzare fotografie antropologiche sui vari territori che poi ha raccolto nel libro “Chi è devoto”. Poco dopo, accompagnai De Simone – che nel 1967 aveva fondato la Nuova Compagnia di Canto Popolare – a Spoleto insieme a Rosanna Purchia, l’ex sovrintendente del teatro San Carlo di Napoli, che all’epoca aveva il ruolo di segretaria proprio della NCCP”.
Anche il racconto di De Falco è un furibondo carnevale. Ogni parola è un carro festoso e rutilante, inarrestabile e propulsivo. Dalla antica Babilonia, attraversando il mare e la Grecia, i costumi, le maschere e le azioni delle persone sono migrate fino a noi vesuviani. Superando i limiti del Cristianesimo e diventando figure e favole di illuminazioni pagane.
Pulcinella e la commedia dell’arte. “Queste conferme le abbiamo ricevute anzitutto da un poster che ci ha donato il fotografo/grafico Patrizio Esposito (partner creativo di Leo de Berardinis, Antonio Neiwiller, Fabrizia Ramondino, Mario Martone) e poi da una testimonianza del giornalista Luigi Necco, appassionato e studioso di Archeologia e Storia antica, quando ha visto-riconosciuto una foto che ritrae un collettivo iracheno in abiti rituali.
Non dimentichiamo che la voce di Necco apre la registrazione del nostro brano “’A Flobert” (una fabbrica di munizioni per armi giocattolo a Sant’Anastasia), con un incipit estrapolato dal suo servizio al notiziario Rai. Pensa che in tutti questi anni ci sono state serate in cui eravamo talmente coinvolti nell’esecuzione della Flobert che dovevamo quasi fermarci, perché l’emozione e la commozione erano ingestibili”.
Pensate alle stanze di questo canto di protesta: “E chi va a faticà / pure ‘a morte adda affruntà / murimmo a uno a uno / pe’ colpa ‘e ‘sti patrune”. Tiritera che si ripete tutt’ora nei telegiornali quando riportano “disgrazie” accadute nientemeno ai giovani che frequentano tirocini, stage e programmi di alternanza scuola-lavoro. Insomma, se more ancora cchiù ampresso ‘e primma. Ed eccole rivelate e scintillanti le forme-formule della cultura tradizionale su cui germogliano testi inediti contemporanei. Testi, situazioni racconti, che non poche volte hanno scatenato il disappunto dei sindacati o degli esponenti delle sezioni di partito, che si lamentavano del fatto che ‘E Zézi erano troppo espliciti nei brani che intonavano.
“Nel ’74 ero ancora un professore di Artistica nelle scuole medie di Maddaloni, dopo aver studiato all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Io sono nato ad Avella il 16 agosto del 1943, perché la mia famiglia era temporaneamente sfollata da Pomigliano a causa della seconda guerra mondiale. Nel nostro Gruppo un paio lavoravano già in fabbrica. Altri erano artigiani, parrucchieri, sarti, studenti disoccupati, falegnami, carpentieri. ‘Na robba ammiscata. Il nome del collettivo non poteva che essere questo.
Nascemmo in qualche modo come alternativa al progetto di De Simone. Pomigliano era stata stuprata dall’industrializzazione. Aveva una tradizione agricola che veniva gradualmente mortificata e, ispirandoci a quelle recite di strada che accadevano fino al 1956, abbiamo tenuto fiero l’appellativo Zèzi. Aggiungendo il prefisso Gruppo Operaio per rispettare una coscienza del lavoro”.
Tanto sono vere le parole di Angelo, che dall’incrocio della circumvesuviana, per giungere a casa sua, bisogna incamminarsi lungo i marciapiedi di viale Alfa Romeo. L’industria mastica la toponomastica e chi abita in quelle palazzine a schiera, di genesi fascista – sui muri esterni ci sono quadri in terracotta rossa che esprimono l’azione|alienazione dei reparti operai – ha scolpito addirittura sui documenti il resident brand della fabbrica-padrona.
“I nostri titoli sono diventati continuamente una metafora per dare eco e offrire la verità su tanti concetti. ‘E Zézi portano la loro luce. Come abbiamo fatto per la realtà dell’Alfasud, per i lavoratori, per la componente civica e sociale. Basti pensare a “’A Flobert”, a “Vesuvio”, a “Pummarola Black”, a “’A ferriera” sul disastro dell’Italsider. Tutte queste canzoni nascono da una sensazione di sangue e verità. L’autore dei versi di “Vesuvio”, Luigi Castellano (1923-2001; noto con la sigla LuCa, artista figurativo, autore del manifesto Nullista e animatore delle avanguardie con il Gruppo 58. Castellano ha firmato pure “’A ferriera” e “Piazza Dante”) teorizzava che noi siamo “un congegno didattico popolare”. Si stabilisce una relazione a tu per tu con la gente. I nostri brani istruiscono il popolo e innescano una reazione di sangue, cervello e braccia”.
Chissà quanti musicisti, operai, amici, partner, cantori, danzatrici, mimi, attori, hanno militato nel Gruppo Operaio ‘E Zezi. “Basta controllare il nostro stato di famiglia. Alcuni anni fa, proprio Patrizio Esposito creò una sorta di albero genealogico azzurro indicando nomi e cognomi e soprannomi. Nel 2019 se ne contavano 320. Oggi, includendo la costola Zézi teatro, siamo a circa 500. Io che sono conosciuto con lo pseudonimo ‘o prufessore potrei citare chiaramente Marcello Colasurdo, alias ‘o chiattone, scomparso un anno fa. Poi Matteo D’Onofrio ‘o ‘ncasa neve, Aniello Mafalda, Sciascià, Pasquale Bernile ‘o cacaglio; Sebastiano Ciccarelli miciariello; Aniello ‘o pazzo; Antonello
Paliotti, Roberto Paci D’Alò, Daniele Sepe, Viviana Serretiello, Antonio Esposito ‘o stocco; Antonio De Falco ‘o sarto. Gennaro Esposito ‘o poeta, che era il papà di Patrizio; Marzia Del Giudice, Nunzio Tranchese capocchia; Oreste Zevola. Vincenzo Panico mumù; Carmine Luino; Massimo D’Avanzo; Irene Lungo; Ilaria Graziano; Maria di kontainers; Mimì flauto; Gianni Mantice, Claudio Romano; Massimo Mollo; Pasquale Ciccarelli alligatore, Velia Cimmino, Silvana Di Domenico addò sta ‘o biutichese, Bruno Senese, Massimo Ferrante, Lello Panico, Raffaele Del Prete, Maria Sibilio, Marzouk Mejri, Dario Mogavero, Rossana Iossa, Vittorio D’Ambrosio, Riccardo Veno, Sergio Quagliarella, Cristina Vetrone, Salvatore Tranchini, Pasquale Terracciano, Vincenzo Esposito ‘a carpentera; Lello Settembre e Mauro Rea sciupatiello”. Questo alfabeto sentimentale riconduce a una cartografia espressiva e politica. Una miscellanea fiera di realtà, contributi, lotte, rivolte, a bordo della musica e del teatro.
“Vuoi aggiungere qualche titolo? “’A morta mia”, recitata per i lavoratori dell’Italsider su richiesta dell’allora sindaco di Napoli Maurizio Valenzi. Che la sorte ci aveva già fatto incontrare nel 1975 durante un memorabile Capodanno a Capri. Pensaci: il Gruppo Operaio ‘E Zezi che porta la “Zeza” nella piazzetta dell’isola blu. Su un palco allestito davanti al campanile, tra i bar e i turisti. Un altro mondo, un’altra Capri. Ci convocò quello che era l’unico comunista di Capri, secondo me”, insiste goliardico, “e la gente si divertiva a crepapelle con le tammurriate e le tarantelle. Allora, suppergiù, ci fu uno splendido festival a Salerno e venimmo coinvolti dal regista Giuseppe Bertolucci, fratello di Bernardo, che tentò di farci suonare in Turchia”.
Energia e frustrazioni dormono nello stesso letto. Nella curva tra anni Settanta e Ottanta accade un primo stop al Gruppo. A Pomigliano d’Arco nel 1979, il cineasta Salvatore Piscicelli che proprio là è nato, sceglie i cortili e le viuzze che meglio conosce per ambientare il lungometraggio “Immacolata e Concetta – L’altra gelosia”. Storia di un amore lesbico feroce e da sceneggiata che genera scandali e censure. Nel Gruppo Operaio vi erano parecchi studenti che desiderano laurearsi o trovare un impiego parziale e garantito. La matrice teatrale non si arresta e prosegue con stesure di copioni collettivi, derivanti da tanti litigi e discussioni aspre e frontali sui guai giornalieri.
Non è che sifacessero provini e casting per reclutare attori. Servivano persone reali per inscenare accadimenti di esistenza reale. Va ribadito che in questa epopea craxista e di sconfortante mutazione dei mestieri in categorie di lavoro flessibile, interinale, precario, subentrano le rivoluzioni internazionali dell’intrattenimento che esercitano un particolare ascendente/cambiamento/distrazione sociale sia sul ceto agiato sia sulle fasce più marginali: dalla cosiddetta discomusic al synth-pop, dalla cassaforte dance al verbo new wave/punk/rock. La musica popolare va per un po’ in croce e, più tardi, casca in uno strapiombo.
“E questa fase è di radicale aggregazione politica. Persone lontanissime dal palcoscenico, sulla carta, che osano e indossano calzamaglie, parrucche, baffi, giocando per rappresentare personaggi e maschere e calembour. Reagendo, appunto. Quasi fosse una nuova Armata Brancaleone. Citando uno degli spettacoli del 1985, ti dico “Tutto ‘pe niente”, tra cronaca spietata e sberleffi di ambientazione carnevalesca”. In cui il nucleo di interpreti non-attori interviene sulle tavole del palcoscenico manco evocassero le controfigure dei Kraftwerk, tra mimica alienata e convulsioni. “Abbiamo portato il nostro teatro nei manicomi, nelle parrocchie, nei festival europei. Dormendo dove capitava. Però ogni cena o pranzo alla fine diventava una festa”.
Al rallentamento degli anni Ottanta si contrappone, vigoroso, il decennio Novanta. “Si verifica prima un inciampo del movimento dei lavoratori e lo sconquasso dei partiti fa zoppicare anche le nostre azioni militanti-musicali. Ci dedichiamo alla realizzazione di alcuni dischi e non mancano esperienze di tour magnifici. Nell’autunno 1993 andiamo a Nantes, al festival “Les Allumèes”, in compagnia della musica di Bisca e Daniele Sepe e 99Posse e Almamegretta per una jam vulcanica, e con noi c’erano Teatri Uniti e le marionette di Bruno Leone. Il pubblico – erano le 3 del mattino, pressappoco – ci invocava di rientrare per i bis e tanti di noi piangevano dalla gioia e dallo shock per la reazione della gente. Forse un musicista professionista resta impassibile; per un operaio, è un miracolo. Ancora in Francia, al porto di Brest, facciamo scintille appena un anno più tardi. Non scorderò mai la paura di tutto il Gruppo quando ci trovammo sotto il palco circa 40 mila spettatori. Adesso ripenso a quante volte è capitato di suonare al Nord Italia, per esempio, e tanti dei Zézi, al rientro dal concerto a Pomigliano non avevano neppure il tempo di riposare perché dovevano entrare in fabbrica e timbrare il cartellino all’orologio marcatore.
Ma tutti eravamo felici, il nostro corpo si era appena rigenerato. Ossigenati per continuare a lavorare un’altra settimana. Immagina poi che Brest arriva quasi contestualmente alla morte del mio primo figlio, Felice, che scompare nel medesimo giorno di Massimo Troisi: il 4 giugno. Gli organizzatori francesi temevano che non saremmo andati più a suonare. Invece rispettammo le attese del popolo d’oltralpe. Sono anni in cui suoniamo spesso al centro sociale Officina di Gianturco e si crea il rapporto con i più giovani. Una grande scoperta da parte nostra. La tammurriata li convince subito. Non soltanto quella dell’Alfasud.
La matrice folk dell’hinterland si gemella con le realtà metropolitane antagoniste. Ricordo il battesimo della 99Posse in piazza Medaglie d’Oro all’Arenella, quando ci volle accanto a sé sul palco in qualità di “padrini”. Prezioso ancora fu l’incontro con Gennaro Tesone e gli Almamegretta. Li invitai nelle masserie di Pomigliano e loro ci confessarono che erano assai distanti musicalmente. Gennaro ci disse quanto profonda era stata la disgrazia di non avere trovato nei sussidiari delle scuole elementari almeno tre paginette che raccontassero della musica popolare, dei suoi riti, delle tradizioni. Per dirlo lui, che ha origini nel territorio di Giugliano … e le paranze giuglianesi sono tra le più antiche. In quei giorni li portai nella zona di ’o ponte ‘e fierro, una frazione a ridosso di Sant’Anastasia che io considero il nostro Chiapas, per far sì che potessero scoprire di più certi linguaggi. Il loro album “Sanacore 1.9.9.5.” è proprio il sigillo a questa amicizia e conoscenza. Sono semplicemente figli nostri”. Nel 1994 esce l’album “Auciello ro mio – Posa e sorde”, che include la perla-cult “Vesuvio”. Tuttora il climax del progetto Zézi. Nel 1996 invece arriva “Zézi Vivi”, tra “Canto Saharawi” e “Capipallisti”, e la regista Antonietta De Lillo dedica al Gruppo il documentario “Viento ‘e terra”.
I Duemila si aprono con una ferita sanguinolenta che si chiama Real World. Un incidente umano, creativo, discografico, economico, che vede protagonista involontario il signor Peter Gabriel. La maschera dei Genesis. “L’ingegnere del suono e produttore Peter Walsh è ai Capri Digital Studios sull’isola del golfonapoletano e ascolta i materiali di un nostro album incompleto e in fase di ultimazione. Li invia a Peter Gabriel dell’etichetta Real World, insieme al precedente compact disc “Auciello ro mio”, in cui cantava ancora Colasurdo”.
Parentesi: in quella sala caprese hanno registrato i loro album Sting, Aerosmith, Pearl Jam, Franco Battiato, Duran Duran, Mariah Carey, Vasco Rossi, Simple Minds, INXS. “Il proprietario degli studi, Carlo Quinto Talamona, era assai affascinato dall’idea che Zézi e Gabriel potessero collaborare generando clamore mediatico. A materiale pronto, Talamona mi dà appuntamento a ridosso di piazza Municipio a Napoli per firmare un contratto.
Le pagine di questo accordo sono poco chiare, troppe cose non ci tornano. Certo, sarebbe stato interessante essere distribuiti in tutto il pianeta, veicolare i nostri canti di lotta e resistenza socioculturale. Chiediamo un accordo al 50%, Talamona replica categoricamente no. Rifiutammo tutto. Lui reagì male e propose a Marcello Colasurdo (che nel ’96 aveva fondato la sua Paranza) un accordo differente, parallelo, a nostra insaputa. Mettono su una band nuova, creando dal niente gli Spakka-Neapolis 55 e la famiglia Zézi “salta in aria”. Riscrivono i testi, cambiano la tracklist, modificano i titoli. A interpretarli sono le voci di Marcello Colasurdo e Monica Pinto. Sui giornali succede il patatrac. Talamona mi querela, essendo io il portavoce del Gruppo Operaio ‘E Zézi. Vado in tribunale e loro perdono la causa”.
Ci vuole un po’ di tempo per riprendersi ma un giorno squilla il telefono ed è l’epifania. “È la produzione della serie tv “The Sopranos”. Dagli Stati Uniti ci dicono di aver ascoltato alcuni pezzi del famoso disco registrato a Capri, successivamente mixato in California. Sono innamorati di “Vesuvio” e vogliono inserirlo in un episodio. La puntata è quasi pronta e attendono il nostro consenso per sincronizzare la musica. Però sono allarmati perché hanno letto svariati articoli di giornali in cui si dice che il Gruppo Zézi ormai è dissolto, sbriciolato. Li rassicuro. Ci chiedono se vogliamo realizzare quel canto daccapo, apposta per i “Soprano”.
Lo facciamo negli studi di Massimo D’Avanzo a Bagnoli. E quella versione successivamente è stata inclusa nel disco “Diavule a quatto” del 2003 uscito con l’etichetta del Manifesto, come quello del ’96. Con i soldi della produzione televisiva recuperiamo i denari e pareggiamo i milioni anticipati per registrare il disco a Capri”.
Nel 2007 viene pubblicato “Triccabballache – auLIVE e chiapparielli” e due anni dopo esce nel circuito indipendente il docufilm “Il sogno dei Zézi” con la doppia regia di Giuseppe Bellasalma e Benedetto Guadagno. Poi nuovamente un letargo quiescente. “Tutti pensano che noi restiamo fermi. Ma in quest’arco temporale siamo stati pure solidali con i lavoratori della Whirlpool, suonando per loro nel presidio in fabbrica, e in realtà simili. Risorgiamo definitivamente con il cinema in tivvù. Per la serie “La vita bugiarda degli adulti”, diretta da Edoardo De Angelis e trasmessa in palinsesto da Netflix, nel 2022 giriamo alcune scene cantando i nostri brani. È il primo momento di purissimo cinema che ci vede protagonisti in qualità di Gruppo Operaio ‘E Zézi. Tutte le altre precedenti occasioni erano speciali approfondimenti sulle dinamiche antropologiche della musica popolare. Con De Angelis si intesse una amicizia vivace. Alla Mostra d’Oltremare e lungo via Marina facciamo i nostri ciak per interpretare “’O ballo re pezziente” e “Fischia il vento”, “Sanacore” e “Mi votu e mi rivotu”. Scene in cui ci fanno compagnia Raiz e Teresa De Sio. Oggi siamo pronti con nuova musica e nuovi concerti, con la formazione che porta sul palco me, Alessio Sica alla batteria, Enzo Salerno al basso, Nino Conte alla fisarmonica, Massimo Ferrante alla chitarra e canto, Dario Mogavero alla tammorra e canto, Toto Toralbo alla mandola e voce, Myriam Lattanzio alla voce e nacchere. Abbiamo appena compiuto 50 anni, compà. Lo sai qual è il nostro motto, vero? Te lo ricordi il retro copertina di “Diavule a quatto”? … Embè: nun se lassa ‘a terra pe’ ‘na mala annata.‘E Zézi non moriranno mai”.